Eruzione del 1861
“L’eruziorie de1 1861 celebre per la gran forza dei boati e tremuoti che l’accompagnarono, danneggiando in grandissima parte la Torre del Greco, senza che niuna delle correnti di lava che si versarono dal lato meridionale del gran cono danneggiasse l’abitato, quantunque ne giungesse a poca distanza superando altre antiche e solidificate correnti. La prima scossa fu spaventvole esssa, si fece sentire nel di otto Dicembre con terrore di tutti gli abitanti del lido sottostante al vulcano.
Per l’effetto delle scosse molte esse crollarono, moltissime. altre rimasero, screpolate, ed. il resto in pericolo. Di una popolazione di 20 mila abitanti 15 mila fuggirono; a tutto questo si aggiunse un’altra terribile piaga: l’esalazioni sulfuree provenienti dal sottosuolo, in special modo verso il lido presso cui il mare in alcune. paiti, per effetto di azione vulcanica, paventosamente bolliva.
Alla fine di Dicembre gli abitanti rientrarono in città riducendola nel pristino stato. Essi rifiutarono il soccorso loro inviato dall’ex re di Napoli Francesco II di Borbone e ne furono ricompensati dall’Italia con larga sovvenzione. Ed in memoria della generosità nazionale elevava la città di Torre del Greco un semplice e modesto monumento di pietrarsa che si vede nel giardinetto di Capo Torre. (Al tempo dei Castaldi il monumento era a Capo Torre poi fu spostato innanzi al vecchio Pallazzo Comunale e ritornato successivamente a Capo Torre n.d.r.)
Sulla facciata anteriore del monumento è incisa in marmo la seguente iscrizione:
SARA’ PERPETUA LA GRATITUDINE DI QUESTI ABITANTI |
La stessa eruzione nella narrazione dello storico napoletano
Giacinto De Sivo
(acceso filoborbonico antiunitario, che ne1 1863 pubblicò una
”Storia delle due Sicilie dal 1847 al 1861”)
“Quel dì 8 dicembre fu sacro a maggiore sventura… Limpido era il cielo, dolce l’aere, poco mancava al meriggio quando improvvisamente sotterranee scosse e frequenti, pria lievi poi gravi, travagliano la vesuviana mole. Nugghia il monte!… e geme, sinché sull’ore tre con gran fracasso si squarcia nei fianchi e gitta nugoli di smisuurato fumo che, alzatosi alla vetta, a forma di immeriso pino lo copre. Sembra fitta notte; granulata nera cenere, piove a rovescio sulla terra e sul mare. S’aprono uno dopo l’altro cinque crateri in qua dalla voragine del 1794 poco più su da Torre del Greco che tra profondi muggiti vomicano bitume e massi e folgore e lava. Questa larga duemila passi, giù per la china allaga il piano quindi in due partite, una va di vallone in vallone, altra volta a Torre del Greco e orrendamente la minaccia. Già la città sembra in quel fracassio dover essere inghiottita o sprofondata nell’abisso che il vulcano di sotto le spalanca; ma ecco lava pria dell’alba del 9 improvvisamente s’arresta, perché lo interno foco travolgendosi alle antiche vie risale al vertice del monte con le consuete eruzioni. Le squarciature dei fianchi cessano gettare; ma ma nei sotterranei cozzi ribollendo le ignivome materie sotto la città calano i tremuoti, si screpola il terreno, si fendono le mura, il mare s’abbassa, ovvero meglio il suolo sette palmi s’alza sul mare. Le case fondate sopra le antiche lave se le sentono trabalzar di sotto e aprirsi in fenditure né sboccano nuove sorgenti d’acque minerali; le antiche già saluberrime diventano vulcaniche e disgustose, né più atte a umano uso. Il propinquo mare, da sottomarini rigurgiti sconvolto, ribolle; la terra esala gas mortiferi ad uomini ed animali, le case s’inchinano e crollano. Torre del Greco è una ruina.”